Poncho

15 luglio 2009

Dice Danilo: il libro di Vasta è bello. Ha visione, pensiero, lingua, narrazione. Ha quasi tutto quello che cerco in un libro. Ma il libro di Falco è più bello. Dovresti leggerlo.

Sto leggendo il giornale seduto al tavolino del bar dietro casa di Gioia, nel Corso. Lui è di passaggio, giacca cravatta ventiquattrore, diretto a un appuntamento di lavoro.

Sto leggendo Il Vangelo secondo Gesù, rispondo. Di José Saramago.

Hai sentito di Carver?

Cosa?

E Poncho?

Poncho…

Danilo chiama così Thomas Pynchon. Quattro o cinque anni fa, quando faceva l’apprendista da me, al cinemino in centro storico, non lo conosceva. Un giorno gli dico che devo affrontare una lettura enorme: Gravity’s rainbow. Gliene parlo parecchio, anche perché Thomas Pynchon è forse la mia più antica passione, da troppo tempo trascurata. In quel periodo non ho il becco di un quattrino e Arcobaleno di gravità, che è un tomo di mille pagine, è disponibile (scopro poi che non è vero) solo in edizione de luxe. Nello stambugio in cui lavoriamo gli parlo di scrittori mistici e scrittori metafisici. Dico che Carver è metafisico, mentre Pynchon è mistico. Dico che la lingua del povero David Forster Wallace – altro scrittore di cui chiacchiero tanto, e spesso a sproposito – deve più a Carver che a Pynchon. Non so bene cosa dico e come lo dico, insomma. Danilo del resto parla pochissimo, sgrana gli occhi, ascolta con un’attenzione che a tratti mi sconcerta. Se perdo il filo o faccio una pausa perché fatico ad articolare un pensiero lui rimane zitto, sospeso, senza fiatare. Quando – mentre gli insegno il lavoro – pontifico, sono sempre alticcio. A volte però mi succede di arrivare dall’altro lavoro che faccio, durante il pomeriggio, già del tutto ubriaco. Da un lavoro all’altro c’è poco meno di mezz’ora, a piedi. Io di solito sono a piedi, oppure in bici e ho circa un’ora a disposizione. Se durante quell’ora sbaglio la dose, poi non riesco a tener dietro ai discorsi. Così gli dico: niente, scusa, non ce la faccio. Solo allora Danilo abbassa gli occhi.  Ma è lui quello che beve, penso. Tutto quello che dico. Come terra riarsa. Non so poi che uso ne faccia. Non so se verifichi. Non so se si sia messo in testa di voler scrivere. Non mi parla mai dei libri che legge. Per quel che ne so, Danilo non legge. Non abitualmente, almeno. Gli voglio bene, penso.

E quel tizio? Quello enorme, Poncho…

Poncho?

Poncho… Pancho… fa lui.

Risate. Ne abbiamo bisogno. Mi hanno licenziato. Lui ci contava. Ci contavo anch’io, naturalmente. Il cinemino chiude: non si cava sangue dalle rape.  Cerchiamo lavoro insieme.

Un paio di mesi più tardi stavamo all’ombra, sotto la tettoia del magazzino, aspettando il nostro turno. Ci avrebbero chiamati e avrebbero pagato la settimana. Era il nostro giorno libero, ma eravamo lì lo stesso, per i soldi. Gli ultimi due rumeni erano appena entrati in ufficio. Restavamo solo noi. Estrassi dallo zaino il mio libro. Avevo sempre dei libri, nello zaino. Ogni volta che potevo ne tiravo fuori uno e ne leggevo un po’. Mi piaceva leggere seduto all’aperto, o anche camminando. Mi piaceva quando avevo del tempo, soprattutto al tramonto, entrare in un bar, ordinare da bere e ubriacarmi lentamente, leggendo e pensando. Il fatto che spesso, in sua compagnia, invece che chiacchierare mi mettessi a leggere non lo disturbava. E a meno che non prendessi parola per primo, rimaneva zitto, immobile, a riflettere. Non quella volta, però. Era un bel mattino di giugno, all’ombra della tettoia si stava da dio. La notte aveva piovuto. L’aria era tersa, esatta, vibrante. Avvicinò la fiamma alla punta della canna, tirò e aspirò a pieni polmoni. Non mi offrì da fumare. Non mi piaceva. Buttò fuori il fumo socchiudendo gli occhi. Sbuffò. Non puoi pensare di scrivere in quel modo, disse. Tenevo in mano Gravity’s rainbow.

Hai preso Contro il giorno?

No. Aspetto l’edizione economica.

Campa cavallo.

Lo so. Non sono mai stato molto a la page. Ma Carver?

E’ uscito Principianti, dice.

Ah. Allora sì, sapevo.

(…)

(…)

Devo andare…

Ci si vede.

Mh…

Cammina spedito, la ventiquattrore beige appena oscillante, le maniche arrotolate, la cravatta scaraventata da un refolo immaginario dietro le spalle – come andava di moda tre o quattro stagioni or sono. Non gli è passata, penso. Non del tutto, benché non abbia mai capito in relazione a cosa, e perché. Ma ho ricominciato il giorno dopo averlo visto, la sera a teatro. Erano quattro, cinque anni – un mese fa.

No, sussurro. Non puoi pensare di scrivere in quel modo.

Mentre scompare.

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