passato

12 agosto 2010

Ripensavo ai discorsi di ieri l’altro su La dolce vita di Fellini, intorno alla forza di prefigurazione di quel capolavoro. Però ci pensavo, come dire?, all’inverso. Pensavo cioè al tentativo di cogliere il tempo, la sua origine, il suo sgorgare, il suo essere, non nei termini di una prefigurazione del futuro, ossia nei termini di quel che sarà domani pienamente; ma ci pensavo piuttosto nei termini della capacità di “far essere” un passato. Credo si possa dire che cogliere l’attimo di un’epoca,  esprimere il suo essere, costituisca il tentativo che nella conversazione di ieri l’altro Giuseppe e Gioia definivano come “non semplicemente testimoniale” (constatativo), ma: “all’altezza del tempo”. Ci prenda o meno, questo tentativo, non importa, pensavo. Se ci prende, tuttavia, questo tentativo, cosa fa? Ho pensato: “Fa essere” il passato.

C’è forse un elemento di bislacco pessimismo, in quest’idea (nessuna speranza, mai, per il futuro: sarà quel che sarà). Ma qui la pedagogia – in senso lato – o la progettualità non c’entrano. Mi domandavo piuttosto cosa succede se il tentativo fallisce, oppure se il tentativo non è assolutamente inteso come tale, cioè come tentativo di cogliere l’ora di un’epoca, il suo autentico emergere. Se uno scrittore, un regista, un musicista etc., fa altro. Nel senso di: “inautentico”. Mi domandavo anche chi sia colui che sa cosa sia inautentico, di un tempo. Pensavo, in altri termini, alla differenza fra documento, testimonianza, etc., da un lato. E un’opera come La dolce vita, di Fellini, dall’altro; e nella misura in cui quest’ultima è universalmente considerata “un classico”, mi domandavo quale relazione vi sia fra “autentico” e “classico”. Noi, pensavo, nel 2010, sappiamo che quell’opera, quello sguardo, non sono più praticabili. Forse non sono più possibili. Addirittura, forse, in relazione al nostro tempo, non hanno più senso.

Abbiamo, forse, la sensazione che ciò che viene, che è già qui, che sta dispiegandosi, l’essere del tempo di adesso, sarà “concreto” domani. Al tempo stesso l’epoca, all’altezza della sua concretezza, all’altezza del suo pieno dispiegamento, non sarà già più. Non sarà più l’essere. La cosa propria del tempo. Non sarà il “presente-domani” che, da quel che mi par di capire,  è  l’adesso de La dolce vita – il germoglio epocale.

L’opera La dolce vita, ho pensato, fa essere il nostro passato. La cosa-fenomeno-esperienza-realtà “dolce vita”, invece, è il fossile. Il passato non tornerà mai più. Il fossile, invece, è qui. Prefigurando, ho pensato, non si costruisce, tanto, il futuro. Ma il passato. E specificamente: il passato di un presente che si percepisce come “presente-domani”. Chi nel modo più autentico coglie ciò che verrà, non produce un’immagine di ciò che viene, ma fa essere, di ciò che viene, il passato. Il passato fatto essere da un tentativo riuscito di cogliere l’adesso di un “presente-domani” fa di quel tentativo un classico.

(Ma allora, ancora: che ne è dei tentativi falliti? O di tutto l’inautentico di un’epoca? Giulio Mozzi, rispondendo a un pezzo di Luca Massaro, si domandava qualche giorno fa, in Vibrisse: “Quando sono nel mio studio, e affronto la massa di dattiloscritti che mi arriva a casa. penso ancora: quanti tentativi ci vogliono per fare qualcosa che resti”).

Un’epoca come questa. Completamente presa in sé stessa, tanto schiacciata sul suo da non sentirne la transitorietà; il divenire effimero dello stesso transitorio. L’inautenticità dell’inautentico. Il non sentire urgenza. Di fretta, pensavo, senza urgenza. Impossibilitata a esprimere prefigurazione che non sia pressoché il suo identico. Non so se sia un “compito”, una “missione”; ma d’un tratto ho fatto il pensiero che quest’epoca rischia di non produrre passato. Solo testimonianze. Fossili.

(Domando scusa a chi abbia letto per l’oscurità. Al momento non riesco, meglio. Spero che al lavoro mi si chiariscano un po’ le idee).

9 Risposte to “passato”

  1. Enrico said

    Se tu potessi chiarire il quarto capoverso te ne sarei grato.
    Per ora mi vien solo da condividere che le aree del cervello adibite alla formulazione del futuro sono le stesse che gestiscono il passato. Direi che il futuro viene gestito come un passato che vorremmo avere.

    • mbrt0 said

      Caro Enrico, grazie anzitutto di esser passato e aver dato segno di te. Ti scrivo un po’ rocambolescamente dal lavoro, dove spesso, deambulando e ripetendo gesti identici, entro in una sorta di “trip”. Accade così che mi si schiariscano elucubrazioni – magari meno assurde di questa, che avrebbe ad argomento qualcosa come l’esperienza “sensibile” del tempo storico, argomento di per sè, temo, semplicemente pazzesco – che mi porto in testa da qualche giorno. Oggi non è andata gran che bene. Per esprimermi meglio di come ho fatto ho l’impressine di aver bisogno almeno di un’intera mattinata a mente fresca. Dico solo che le neuroscienze (non so se tu fossi ironico: è una cosa che mi viene in mente adesso, d’un tratto, che non avevo considerato; penso di no, ma correggimi se sbaglio, senza timore!) c’entrino poco, con la percezione della propria epoca. Credo invece c’entrino molto la cultura, i cosiddetti valori, l’elaborazione di significati sociali e individuali. Qui sotto, se hai voglia di leggere ancora qualche riga, ti riporto un aneddoto riportato in un libro di un grande storico, Reinhard Kosellek, specializzato, o meglio, fondatore di una disciplina denominata: “storia dei concetti”. In realtà, è un aneddoto che può anche essere fuorviante o, quantomeno, come dire?, a valle, del tipo di discorso che mi frullava in testa. Attraverso questo aneddoto Koselleck illustra la ricezione popolare dell’idea di progresso, l’esperienza non intellettuale della circolazione di un’idea “nuova” che produce un determinato “clima” e una percezione, una sorta di senso comune del tempo in cui si vive, assai peculiare, in questo caso, come tempo di novità e di cambiamento (ti chiedo scusa per tutte le virgolette: è segno delle immani difficoltà che ho nell’esprimere cose che intuisco, ma fatico a razionalizzare e a esporre). Ecco comunque Koselleck:

      “Un giorno di fine Ottocento a Frenke, un piccolo villaggio sul Weser, il penultimo figlio di una famiglia di artigiani venne cresimato. Di ritorno a casa ricevette un sonoro ceffone, per l’ultima volta, dopodiché poté sedersi a tavola mentre prima, come tutti i bambini, mangiava in piedi. Questa era l’usanza. È a questo punto che comincia la storia che sto per raccontare. Il protagonista è l’ultimo figlio, il più giovane della famiglia, ed è stato lui in persona a raccontarmela1. Pur se non ancora cresimato, gli fu permesso di sedere al tavolo dei grandi, come il fratello cresimato, senza ceffone. Quando la madre chiese, sorpresa, cosa significasse ciò, il padre rispose: «È il progresso». Il giovane andò inutilmente in giro per il villaggio a chiedere cosa fosse il progresso. All’epoca il villaggio era formato solo da cinque fattorie, due case coloniche, sette botteghe di artigiani e sette case di contadini. Nessuno degli abitanti sapeva dare una risposta. Eppure questa parola circolava, sia in forma scritta sia in forma orale in città, dove stava diventando una parola alla moda che indicava il nuovo stato di cose. Una vecchia usanza veniva infranta. Non sappiamo come la madre abbia chiamato quel cambiamento; se, cosa peraltro improbabile, avesse padroneggiato il linguaggio colto e nostalgico, avrebbe forse utilizzato i concetti di declino e decadenza per indicare, con termini diversi, il medesimo stato di cose. Ora, questa storia è sintomatica del processo di lungo periodo nel corso del quale la vecchia Europa si è trasformata, e ancora si sta trasformando, nel mondo delle società industriali moderne. Intendiamo anzitutto interrogarci sull’impiego della parola, ossia su che cosa viene realizzato dall’uso della parola. Chiaramente, l’affermazione «È il progresso» implica l’irruzione improvvisa della prospettiva temporale nella struttura sociale tradizionale di una famiglia di artigiani. Prima la cresima non aveva soltanto un significato religioso, ma era anche un rito di iniziazione sociale; ora le cose sono cambiate. L’ammissione al tavolo degli adulti viene separata dall’usanza religiosa. Prima si faceva così, oggi si fa diversamente: questa la correlazione minimale stabilita dal nostro testimone con l’impiego della parola «progresso», in cui risuona anche la convinzione che il nuovo comportamento sia migliore di quello precedente. Ma con quella parola l’artigiano sottolineava anche che ammettere a tavola il figlio più giovane non era il frutto di una sua iniziativa personale bensì, appunto, una conseguenza del «progresso». Insomma, egli non faceva che mettere in pratica quanto era già richiesto dai tempi. L’autore empirico dell’azione viene sgravato dalla responsabilità, in quanto compie un atto la cui origine e il cui significato vanno ascritti al progresso. L’atto individuale risulta essere come un evento che si compie attraverso l’agente”.
      Ps: l’ho preso da qui!

  2. Enrico said

    Grazie della risposta. Riguardo alle neuroscienze non ero ironico: c’entrano poco, è vero, ma mi sono da poco laureato con una tesi in cui analizzo la forma romanzo come strumento cognitivo attraverso le neuroscienze, e credevo di aver riconosciuto in quello che hai scritto qualcosa di familiare; una volta aperta la scatola del cervello, faccio fatica a non guadarci dentro. Quindi direi che quello che ho scritto mi è scappato.
    Da quanto hai ribadito credo che quello a cui stavo pensando non c’entra per niente.
    Mi eclisso.

    • mbrt0 said

      Grazie ancora a te, Enrico. Ma senti. Mi hai incuriosito! Precisamente mi ha incuriosito questa tua frase: “rforma romanzo – come strumento cognitivo – attraverso – le neuroscienze”. Confesso che non comprendo. Intendi dire uno studio dei fenomeni neuropsichici così come sono rappresentati nei romanzi? Cioè: lo studio di suddetti fenomeni non “live”, ma per così dire “registrati in studio” – sempre che la metafora regga.

      • Enrico said

        Scusami ancora, non ho scritta bene la frase. Nella tesi ho utilizzato le neuroscienze per capire come comprendiamo il mondo, i gesti degli altri e le parole. Poi ho utilizzato questi risultati per dimostrare che il romanzo permette di ripercorrere porzioni di relazioni in modo “utile”; nello specifico analizzo, alla luce delle scoperte neuroscientifiche, tre romanzi americani (L’uomo che cade di DeLillo, La strada di McCarthy e Follie di Brooklyn di Auster) come strumenti cognitivi utili per ripercorrere e tentare di ricomprendere l’11 settembre. Ti chiederai che cosa c’entri tutto questo col tuo ragionamento sul passato e i “classici”. Be’, mi stavo chiedendo che cosa facciano opere come La dolce vita (i “classici” appunto) per far essere il passato, e che cosa invece non facciano altre opere che sono buone ma nel tempo diventano solo fossili.

      • mbrt0 said

        Ciao Enrico, scusa il ritardo con cui ti rispondo, e grazie anzitutto per questo scambio. Sembra interessante, curioso veramente. Si tratta di un ambito di studi in relazione al quale non so praticamente niente. Qualora desiderassi un lettore…

  3. Gioia said

    Time present and time past
    Are both perhaps present in time future,
    And time future contained in time past.
    If all time is eternally present
    All time is unredeemable.
    T.S. Eliot
    Burnt Norton(1° di The Four Quartets)

  4. Enrico said

    Se ti interessa posso mandarti la tesi via mail, mi farebbe piacere perché per ora non è stata ancora letta da nessun scrittore. A presto e grazie

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