gioia su greenberg

18 aprile 2011

Greenberg di Noah Baumbach, con Ben Stiller, Greta Gerwig, Rhys Ifans, Jennifer Jason Leigh, Merrit Wever

L’elaborazione del fallimento e lo stato di sospensione che ne consegue sono il motore di due tra le pellicole più interessanti della stagione: Tournée (di cui si è già parlato qui), oltre che oscenamente doppiato, distribuito in una vergognosa brancata di sale; e Greenberg, che la distribuzione italiana ha promosso come commedia divertente e “carina”, non accontentandosi di affibbiargli un titolo demenziale come Lo stravagante mondo di Greenberg, ma mettendo anche in circolazione un trailer che ne perverte totalmente il senso.

Greenberg è in realtà un film sul disagio, sulla solitudine come schermo al dolore, sull’impossibilità di venire a patti col mondo.

Dopo un ricovero in una clinica psichiatrica, a causa di un esaurimento nervoso, il quarantenne Roger Greenberg lascia New York, dove abita da quindici anni, e torna a Los Angeles, ospite del fratello in partenza per le vacanze. Durante la breve permanenza avrà l’occasione di rivedere i vecchi amici – tra cui Ivan, uscito da poco da una tossicodipendenza – coi quali suonava in una rock band, scioltasi a causa sua, la fidanzata della giovinezza, ormai sposata – e quasi divorziata – con figli, e di conoscere Florence, la giovane assistente del fratello, ragazza fragile e confusa, con la quale si troverà a intraprendere un’accidentata relazione.

Greenberg, Florence e Ivan assomigliano a tre tesserine dalle forme sbagliate, incapaci di incastrarsi nel puzzle che dovrebbe ospitarle. Il sentimento di inadeguatezza – rafforzato dalla luce caliginosa, fosca e umida, da stordimento, del tiepido inverno losangelino – pervade ogni loro entrata in scena: le manie, i tic, gli sguardi eccessivamente prolungati e dunque imbarazzanti di Greenberg; l’impaccio costante di Florence col suo corpo, il suo candore disarmante, i gesti e le espressioni bambinesche; la compostezza incerta di Ivan, l’insicurezza nel prendere parola, la pacatezza traumatizzata, ma ferma, di chi tenta di comporre una vita andata in pezzi evitando, per quanto possibile, di soffrire ancora (è interessante come la sua posizione sia sempre laterale, lo sguardo sempre di sbieco, quasi a offrire alla corrente la minor porzione del suo corpo, per non esserne travolto); tutto ciò connota una condizione che somiglia assai da vicino a quella di Kym in Rachel Getting Married di Jonathan Demme (2008), del quale questo film è parente stretto, e di conseguenza a diverse figure del cinema di Cassavetes – su tutte la Mabel di A Woman Under the Influence (1974) – di cui entrambe le opere sono debitrici, non solo per la radicale inadattabilità dei protagonisti che, con la loro disperazione, si pongono ortogonalmente al mondo restandone irriducibilmente ai margini, ma anche per il modo di girare (con la macchina da presa addosso ai corpi e ai volti), per la frammentarietà delle sequenze, per la capacità di mostrare, attraverso la messa in scena, lo scarto che li separa. Da questo punto di vista Greenberg ha più di un momento emblematico. Tutte le occasioni di intimità tra Roger e Florence, per esempio, risultano disturbanti, palesando in modo tattile, corporeo, il non collimare di due solitudini che pur corrispondendosi seguitano a fratturarsi – con il protagonista che, di fronte all’accoglienza della ragazza, tende a fuggire per paura, non ammettendo al di là dell’ingenuità di lei, una più profonda affinità. Ma il malessere di Roger, così intimo e individuale, viene allargato con grande maestria da Baumbach a una più ampia compagine generazionale che, ugualmente, si reputa fallita. La magnifica sequenza della festa, organizzata dalla nipote e dall’amica la sera prima di partire per l’Australia, smaschera la distanza tra coloro che hanno vissuto la propria giovinezza negli anni ’80 e coloro che la vivono adesso – per intenderci i ventenni genialmente inquadrati da David Fincher in The Social Network (2010). I ragazzi che popolano la festa sono privi del cinismo che permeava gli anni ’80, così come sono mondi dallo yuppismo, dal frazionamento pseudoidentitario di quegli anni, da modelli di desiderio ben definiti e inquadrati; essi abitano invece un magma che sembra fondere paradigmi di consumo differenti, esaurendoli con un’accelerazione esponenziale. Quando uno di loro gli offre una pista di cocaina, Greenberg vuole ascoltare una canzone dei Duran Duran, The Chaffeur, poiché quella musica rimanda a un immaginario in cui quel tipo di droga ha un senso, mentre gli altri presenti chiedono gli AC/DC o i Korn, realtà lontanissime fra loro e, rispettivamente, da un immaginario performativo e sistemico quale quello evocato per Greenberg dalla cocaina, e che tuttavia fluiscono senza stridere in una sorta di candida indistinzione. La rapidità e la scioltezza con la quale i ragazzi decidono, parlano, si muovono, lascia il protagonista di stucco. “Meglio morire che fare un colloquio di lavoro con voi”, dice loro ad un certo punto, rendendosi conto della totale indifferenza per ciò che li circonda. Le due ragazze che vorrebbero coinvolgerlo nel viaggio in Australia lo avvertono “Partiamo tra cinque minuti”: i tempi per decidere, per riflettere, per vivere, non possono essere più lunghi, pena il disinteresse.  L’animale morto, con gli occhi sbarrati, che galleggia nella piscina – omaggio a La dolce vita (1960) di Fellini – altri non è, infatti, che la percezione che Roger, in quella circostanza, ha di se stesso e della sua generazione, ormai soppiantata da un insieme di voci che si passano informazioni, comunicano, si presentano, stanno virtualmente in relazione, ma in effetti non parlano. L’assenza di discorso, e dunque di una narrazione nella quale vivere, rende manifesta al protagonista la sconfitta di chi ha visto svanire il proprio tempo senza essere stato in grado di cavalcarlo, restando al palo, contuso nella migliore delle ipotesi, comunque privato della possibilità di essere ascoltato – Greenberg scrive ossessivamente lettere di lamentela, che in buona parte getta via. “La morte non è nel non poter comunicare, ma nel non poter più essere compresi” scriveva Pasolini. La necessità di trovare un dialogo, potendo dire ciò che non si è stati in grado di dire quando era il tempo, gli viene rimproverata anche da Ivan: “Ho saputo che sei stato in quella clinica…. Io ho avuto una tossicodipendenza… Avremmo potuto parlare… Non parliamo mai di cose costruttive io e te”. L’unica alternativa possibile per lui è recuperare brandelli di un discorso di sé e offrirli a Florance, in una lunga telefonata-lettera, che lei ascolterà il giorno successivo, nella sua segreteria telefonica. La sospensione generata dal gesto, il cui esito rimane incerto sarà, con ogni probabilità, anche la condizione in cui Greenberg e Florence proveranno a vivere la loro problematica storia d’amore, tentando di costruire un “bene” attraverso ferite e incompatibilità senza le quali del resto non ci sarebbe stato riconoscimento, nè una reale possibilità d’incontro.

Gioia.

4 Risposte to “gioia su greenberg

  1. cesio137 said

    Analisi squisita nella precisione, la stessa umanità che pervade il film (e il protagonista) si riversa in questa bella e accurata recensione. E’ inutile : non è un film per ventenni o poco più ! Mi chiedo quanti di noi (ho 42 anni) abbiano provato quel sottile senso di disagio dovuto alla consapevolezza che il regista ha messo il dito nella piaga. Stiller è una vera maschera, inoltre pure lui appartiene alla generazione del protagonista (oltre a Baumbach) quindi il “tema” non gli è estraneo. Greenberg ha visto il suo mondo dissolversi, mentre i suoi amici/fidanzate qualche “treno” son riusciti a prenderlo, lui no. Mille domande, rimpianti, crisi che -ovviamente- lo condurranno alla depressione. Chiaro che, come minimo, oltre a restarci male ti girino un po’ le balle e quindi non sei certo di buonumore, anzi..! Da qui l’insicurezza e l’amara disillusione unita ad una manifesta fastidiosità. Questo è il risultato di un tradimento perpetrato nei confronti dei propri sogni, aspirazioni, desideri. L’incapacità (più o meno colpevole) verso la propria compiutezza adulta è resa in pieno tramite quest’atmosfera statica, “in attesa di”, vacua. Trovo tale film inquietante nella sua silenziosa drammaticità : il disagio è intimo e personale ma descritto con spietata lucidità -talvolta sarcastica-. Che tristezza leggere nei vari siti/blog commenti inviperiti, sprezzanti, BANALI riguardo la verbosità e la noiosità della pellicola. Probabilmente gli autori di tali commenti sono simili ai giovanissimi -e inconsistenti- protagonisti della festa prima della partenza per l’Australia da parte della nipote del protagonista. Condivido pienamente ogni singola riga di quanto scritto nella recensione e ringrazio Gioia per la sensibilità dimostrata. Buon proseguimento

  2. Gioia said

    Gentile Cesio127,
    grazie infinite per il suo bel commento. Sì, anch’io ho trovato “Greenberg” un film doloroso e “disagevole”, come lo sono, appunto, alcune persone traumatizzate e dotate di grande sensibilità – traumatizzate anche perchè dotate di grande sensibilità. Roger Greenberg è estremamente intelligente, addirittura brillante, ma costantemente sbagliato, fuori luogo, per il mondo che abita. È vero che il protagonista ha una quarantina d’anni e che riflette sulla sua generazione (così come ha quarant’anni il protagonista, nonchè regista, di “Tournée” – film che le consiglio caldamente – a sua volta impegnato a elaborare i suoi fallimenti) e con ogni evidenza l’età non è casuale. È anche vero, però, che il riconoscimento con Florence non avviene sulla base dell’età, ma sulla condizione condivisa di disagio. Un film di qualche anno fa che ho molto amato, “Rachel Getting Married”, aveva per protagonista una ragazza non ancora trentenne, ex tossicodipendente, e altrettanto disadattata. Credo che il padre di questa straordinaria lettura della difficoltà per alcune persone di comporsi con la società che le circonda (famiglia compresa) sia Cassavetes. Quando ho visto per la prima volta “A Woman Under the Influence” è stata una folgorazione. Avevo poco più di vent’anni ma ho sentito la protagonista incredibilmente vicina, affine. Credo dipenda non tanto dall’aver vissuto le medesime esperienze (fortunatamente non sono mai finita in una clinica) ma dal considerare quel disagio reale, vicino, poichè il confine tra lo stato di chi viene considerato normale e quello di chi viene considerato disturbato è labilissimo. Io ho 32 anni, il mio compagno 45. Se abbiam trovato un luogo in cui incontrarci, credo sia stato anche grazie a questo riconoscimento e al fatto di poterlo accogliere. Grazie ancora per il suo acume e la sua sensibilità.
    gioia

    • cesio137 said

      Leggere la tua limpida risposta è un piacere Gioia. Seguirò i tuoi consigli recuperando i titoli che mi hai citato ed approfondendo la filmografia riguardo Cassavetes. Tanta serenità a te ed al tuo compagno
      Giorgio

  3. […] una malcelata vacuità (è il caso dei ragazzi che popolano la festa in una delle ultime scene di Greenberg o, per altri versi, di alcuni dei personaggi secondari – compagni di college, conoscenti […]

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