su road to nowhere di monte hellman

20 settembre 2010

Lido di Venezia, Mostra del cinema, notte di giovedì 9 settembre. Devo al genio di Cahier la chiave per il godimento a scoppio ritardato e quindi, voglio sperare, per ulteriori visioni, in città, di una pellicola che dal poco che avevo sentito avrebbe dovuto rivelarsi pane per i miei denti, mentre all’uscita dalla sala mi aveva lasciato con un bel po’ di frustrazione e disorientamento. Impressioni insufficienti a farmi bollare il film, la cui tenuta, sul piano squisitamente estetico, mi sembrava poco discutibile; riconducibili piuttosto al senso di un’ingiustificata sproporzione, quasi di tranello, fra la complessità del dispositivo narratologico esibito – per così dire il vassoio: davvero grande e ricamato e finemente disegnato – e la portata, il tipo di verità, insomma la posta in gioco di una visione di sapore lynchano ed enfaticamente noir: lei è veramente lei?, lui è veramente lui?, avranno commesso o non avranno commesso il crimine?, etc. – ossia la modesta quantità di cibo, per quanto raffinata e haute cuisine a esso destinata. Si tratta di Road to Nowhere di Monte Hellman. Un ottimo, anzi il migliore candidato al Leone d’oro; vincitore meritatissimo del Leone speciale e tuttavia, come pronosticato da Gioia e Cahier quella stessa sera, di distribuzione nazionale quanto mai incerta. Un capolavoro, o qualcosa che, alla seconda visione del film, la mattina seguente, mi è sembrato avvicinarglisi molto. Un bellissimo film che forse in Italia non vedremo mai.

Di straordinaria eleganza quanto a regia, recitazione, fotografia, colonna sonora, Road to Nowhere racconta la preparazione, la lavorazione e l’interruzione traumatica, per duplice omicidio, di un ricco lungometraggio hollywoodiano tratto da uno scabroso quanto chiacchierato fatto di cronaca locale: il presunto suicidio di due amanti – lei molto giovane, lui molto più anziano e assai facoltoso, sebbene in gravissime difficoltà fiscali – articolandone la materia, consistente in un’indagine, da un lato, e in un processo creativo, dall’altro, su quelli che appaiono, in prima battuta, almeno tre universi rappresentativi: 1. quello nel quale si vede la conversazione fra il regista, protagonista del film di Hellman e la blogger locale – colei che per prima, in internet, aveva ricostruito la vicenda dei due amanti presunti suicidi; 2. quello nel quale si vedono scene dell’opera cinematografica del regista, rimasta incompiuta a causa del duplice omicidio della protagonista e della guida locale che, in corso d’opera, ha stretto una relazione con la blogger; 3. quello nel quale si vede il racconto della gestazione dell’opera, fatto dal regista alla blogger che, contattata da Hollywood, ne aveva seguito dal principio la lavorazione, cogliendo un’eccitante occasione di notorietà.

Road to Nowhere si presenta quindi come una sorta di matrioska, in cui una rappresentazione-cornice contiene immagini di un film e immagini di un racconto. D’ora in avanti chiamerò: a. cornice, le immagini relative all’intervista della blogger al regista; b. film, le immagini relative al film girato dal regista; c. racconto, le immagini relative al racconto che il regista sta rendendo alla blogger.

Interviene quasi subito, tuttavia, una complicazione narrativa, un primo effetto di duplicazione apparentemente non risolto. Sul medesimo asse rappresentativo del racconto si vedono infatti immagini afferenti a una vicenda parallela al racconto, di attribuzione narratologica indefinita – ossia, non riferibile alla persona del regista – ma dotate, per così dire, di identica densità ontologica, onde uno scambievole susseguirsi di momenti di racconto e di vicenda parallela. Chiamerò questa duplicazione del piano narrativo del racconto: d. vicenda parallela. Stando a quanto la pellicola di Hellman mostra, se fonte della vicenda parallela fosse la parola del regista, egli si troverebbe a raccontare fatti relativi sia alla misteriosa identità della protagonista, sia ai suoi trascorsi, di cui non soltanto, oggettivamente, non potrebbe essere che troppo parzialmente a conoscenza, ma dei quali – come spesso ribadito da colui che nel racconto va definendosi quale antagonista, cioè la guida locale – il regista stesso si è sempre disinteressato. Agli occhi dello spettatore, insomma, film, racconto e vicenda parallela, stanno sullo stesso piano, posseggono l’identico grado di oggettività, fluiscono scambievolmente secondo conferme reciproche e improvvise smentite (b. = c. = d.). Sennonché con fulminee battute di dialogo (nel racconto), con l’esibizione di finali differenti nonché varianti di una medesima scena (nel film) e mediante immagini del tutto esterne sia al film sia al racconto sia alla vicenda parallela, si fa esplicito riferimento all’elaborazione, da parte del regista, di un film parallelo – che d’ora in poi chiamerò appunto: e. film parallelo. Le immagini della cornice lasciano per altro chiaramente intendere che, mentre lui procede nel suo racconto, non soltanto la blogger locale stia guardando, mescolate a sequenze di “montato”, immagini del film parallelo; ma anche noi (sicché: b. = c. = d. = e.). Nella cornice, infatti, la blogger e il regista siedono davanti a un portatile, nel corpo del quale, all’inizio del film di Hellman, viene inserito un dvd intitolato come il film di Hellman: Road to nowhere. Dopo un breve scambio di battute fra i due, la macchina da presa di Hellman, “doppiando” la cinepresa della blogger, stringe sul video del portatile. Questo va lentamente allargandosi fino a occupare l’intero schermo del cinema. Appare il titolo del film del regista, identico a quello del film di Hellman. Quindi appaiono in sovraimpressione il simbolo del distributore, del produttore, i nomi dei protagonisti, quello del regista, etc. Ma ancora non basta: segnalati dalla inaspettata apparizione della troupe, incongruamente all’opera in momenti e circostanze non riconducibili alla lavorazione del film – semmai al misterioso film parallelo, sebbene, anche in questo caso, con fin troppo esigui margini di plausibilità – vengono allusi ulteriori piani di rappresentazione, con effetti di rifrazione, distorsione e deriva di significato tendenzialmente illimitati.

Ora: a parte alcune semplificazioni e ammesso che quanto da me finora illustrato non contenga sviste grossolane, all’uscita della sala quest’impianto era assai lungi dall’essermi chiaro. Essendo vistosamente esibito, mi ero reso conto della sua esistenza. Ma non sarei stato in grado di ricostruirne l’articolazione. Sentivo che duplicazione e sotituzione erano un po’ dappertutto. Che ogni cosa era due. E pensavo che a una duplicazione-sostituzione identitaria, da film noir, dovessero corrispondere duplicazioni-sostituzioni di ordine sociologico, massmediologico, o per così dire, di psicologia collettiva (il film duplica il dossier multimediale della blogger, che duplica l’indagine poliziesca, duplicata a sua volta dall’indagine della compagnia assicurativa del vecchio faccendiere, e così via). Chiacchierando con Gioia, quanto alla ricostruzione della trama, avevo estratto nuclei tematici riconducibili alla duplice ossessione del regista, da un lato, e della guida locale, dall’altro. Mentre quest’ultimo cerca maniacalmente di far luce sull’identità della protagonista, il regista individua nella sua persona la fonte di trasfigurazione  in grado di elevare alla vertigine del mito la dimensione provinciale di una passione fra una giovane dall’ambiguo passato e un vecchio nei guai con il fisco. È lei!, dice il regista, osservando lo show reel della protagonista. E’ lei!, sostiene la sempre più insinuante guida locale, nella convinzione che, in realtà, la protagonista del film sia la stessa persona della ragazza suicida – che non sarebbe mai morta; ma in combutta con l’anziano amante, avrebbe sostituito al suo cadavere quello di un’altra ragazza e cominciato una nuova vita altrove, come attricetta di film d’ultima serie, finché il destino beffardo le offre come primo irrinunciabile ruolo hollywoodiano, da protagonista, per di più sotto la direzione di un regista di culto, quello di sé stessa ante-mortem (!). E’ ovvio che i due generi di identificazione abbiano dapprincipio poco a che fare l’un con l’altro. Della protagonista, il collaboratore detective, indaga il chi. Della stessa, il regista, cerca un ineffabile cosa. Il film non verrà mai concluso. L’identità della protagonista non verrà mai svelata. Entrambe le ricerche, da un certo momento in poi convergono. Portando chi le conduce al nulla – roads to nowhere, appunto.

Questo era grosso modo quanto avevo compreso, di Road to Nowhere, appena uscito dalla sala, prima di recarmi a cena, con Gioia e Cahier. Non che fosse poco. In effetti, non lo è. Ma l’impressione di avere assistito a un enorme trucco a banale sostegno di una inverosimile storiella di sostituzione – fra la ragazza suicida e se stessa, divenuta attrice; storia che mi pareva più post-moderna che psicologica e mitica – mi infastidiva. E tanto più, mi infastidiva, quanto più mi rendevo conto che il film di Hellman non funzionava. Non intendeva funzionare. Insomma, non funzionava volutamente! Girato magnificamente, con splendide atmosfere di panoramica solitudine, con attori che, sebbene sconosciuti al grande pubblico, facevano quel che dovevano egregiamente, come noir, sotto il profilo della tensione, dei capovolgimenti di prospettiva, dei colpi di scena, risultava, per così dire, un po’ sgonfio; mentre dal punto di vista di una “ontologia dell’essere sociale”, lo scatenamento metacinematografico e di manipolazione del reale messo fortemente in risalto da Hellman, risultava pleonastico ed evanescente. Insomma: nè carne, nè pesce. Le continue contraddizioni, la sempre più serrata sostituzione dei piani rappresentativi, gli sfiancanti depistaggi sull’identità della protagonista, mi avevano fatto mollare l’investigazione, suggerendomi che il nocciolo della questione non consistesse nella determinazione del chi, ma in quella, paradigmaticamente impossibile, del che cosa la protagonista potesse essere. Anche Gioia era di questo parere, sostenendo che, almeno tematicamente, più che Lynch, il riferimento di Helleman risiedesse nell’Hitchcock de La donna che visse due volte; se non altro per il fenomeno di crescente rassomiglianza dell’attrice alla ragazza originale e, al tempo stesso, per il sempre più pronunciato staccarsi da ciò che per lei era stato scritto – la sceneggiatura, del resto, è dichiaratamente un work in progress – fenomeno per il quale la stessa intuizione originaria del regista viene superata da colei che (la cosa che), interpretandone il ruolo, la nega e proprio così va compiendosi. Man mano che la ragazza suicida rivive nel corpo della protagonista, e tanto più l’attrice le si fa rassomigliante, il personaggio, l’avatar, la reincarnazione, prende a vivere di vita propria. Una vita nuova, naturalmente. Ulteriore. Ma soprattutto altra. Altra sia da quella restituita dalle cronache, sia da quella germinante nell’immaginazione creatrice del regista.

Tutto ciò è affascinante, pensavo, ma non è che cinema. Solo cinema e nient’altro che cinema. Non immaginazione, ma immaginazione cinematografica. Non mezzi di comunicazione di massa, ma medium cinematografico. Non immaginario, ma immaginario cinematografico. Insomma: tutto questo apparato di cattura per attualizzare un tema hitchcockiano, mediante una sorta di depurazione empiristica di David Lynch? Il dispositivo di Hellman, pensavo, non sembra soltanto sovradimensionato alla cifra intimistica di un noir provinciale, ma eccentrico anche rispetto a un’esplorazione  sperimentale dell’ambiguo intreccio di industria e arte, macchina e corpo, che è il cinema. Un dispositivo sovracinematografico, più che metacinematografico, che rimpicciolisce  l’enigma alla dimensione seriale di uno “psicologico” depurato o, appunto, a quella di un mistero investigativo del tipo: “lo strano caso di”. Che ne è, pensavo, dell’insieme di rappresentazioni condivise ma trascendenti l’intersoggettività che costituiscono il set dello scontro intorno al reale? Scontro (o mediazione) fra forze che, riducendo altri possibili alla dimensione della soggettività, della follia, dell’idealismo, dell’ossessione, dell’ideologia, della paranoia, avocano a sé la determinazione dello stesso. Che fine ha fatto il reale, in questo film? Che fine ha fatto l’inevitabile termine di ogni discorso sulla natura dell’immagine, dell’immaginario e dell’immaginazione? Perché fare di un racconto di cronaca nera uno spossante puzzle, mediante l’inserimento arbitrario – da parte di Hellman in qualità di deus ex machina – di piani narratologici non riconducibili a elementi dati, per abbandonarli in bella mostra all’ovvietà massmediologica della falsificazione pervasiva, degli effetti di sostituzione della realtà da parte di macchine rappresentative e dispositivi di narrazione – onde cineprese ovunque e il mondo ridotto alle dimensioni una troupe? Solo per dirmi che la verità, nella società dello spettacolo, è inattingibile? O che il reale, nella postmodernità, non esiste? Perché prima, invece? Non è possibile, pensavo. Di che cosa ne andava, allora? Che cosa cercava, veramente, questo film?

Il fatto è che non si finisce mai di imparare. E particolarmente, di imparare ciò che si crede di sapere. Pellicole come Road to Nowhere proprio questo devono fare: serbare il mistero, serbare, attraverso il cinema, un mistero forse più grande di quello del cinema stesso. Per questo non devono funzionare, ma farti sentire che la soddisfazione cui credi di avere attinto è sostitutiva. Che ben poco di ciò che hai visto è provvisto di linearità e determinatezza. Che la linearità e la determinatezza dipendono dalla tua disponibilità a subire linearità e determinatezza che non sono tali. Che non appaiono nemmeno tali. Che, pure, tu decidi essere tali contribuendo ad alimentarne le fonti. Del resto: era lei o non era lei?, forse si, forse no, non si sa. Tuttavia la protagonista viene uccisa da un investigatore improvvisato, la guida locale, la cui “funzione” concerne la determinazione della verità di fatto. Costui guarda la vittima con gli occhi di un detective tenace e ossessionato – in tanta distrazione, in tanto cinematografico glamour – da fatti e dettagli. Di uno che crede ciecamente nella linearità e nella determinatezza di fatti e dettagli coerentemente articolati. E che, ciò malgrado, brinda al successo della sua indagine come a “un capolavoro di finzione”.

Giovedì notte, quando Cahier mi dice: per me questo è anzitutto un film sul doppio, il film stesso prende a risistemarsi, nella mia mente, lungo un  robusto segmento centrale. Gli basta dirlo. Gli basta dire: il regista e la guida locale – cioè l’assassino della protagonista – sono la stessa persona, perché le arbitrarietà di attribuzione narratologica sulle quali mi arrovellavo svanissero. Ciò avviene attraverso il riconoscimento immediato di un elemento appena suggerito, ma mai esplicitato, completamente sfuggito all’attività ricognitiva in cui gli errori, le contraddizioni, il puzzle della narrazione, inducono. Quest’invenzione di Cahier produce un repentino effetto di riassestamento del dispositivo narratologico nei termini di una sua drastica semplificazione. L’inverosimile, forzosa equivalenza di tutti gli universi rappresentativi subordinati alla cornice, trova giustificazione nella parola inconsapevolmente schizoide del regista. Non c’è più contraddizione in materia di attribuzione. Egli è l’artefice, reo confesso, di un delitto passionale inconscio, di possessione, mitizzazione e gelosia. Vi sono immagini, che vengono mostrate. E vi sono immaginazioni integrate mediante un racconto che noi non ascoltiamo, ma ora, da questo momento, presa questa decisione, possiamo vedere. A essere equalizzate, nella prospettiva inventata, sono forme concrete dell’immaginazione e forme volatili o fluide della stessa. Non più tranelli. Perché, tranelli? Varianti, semmai. Vediamo il regista lavorare a due, addirittura tre differenti finali. A due o addirittura tre scene del medesimo delitto. A due o più scene di sostituzione, in un tunnel. Alla medesima scena, interpretata da due o tre personaggi differenti. Varianti, ipotesi creative, tentativi. Com’è ovvio che accada in un work in progress. Ora è il regista stesso ad aver condotto, parallelamente alla ricerca estetica, di cui vediamo oggettivamente le immagini, anche l’investigazione. Dell’investigazione, in linea di massima, vediamo il discorso. Il discorso connette le informazioni relative ai due suicidi (già falsificati, personaggificati dall’informazione), agli attori, oltre che ai personaggi da essi interpretati. L’Investigazione diviene tanto più serrata quanto più nel film la protagonista, nel farsi sempre più rassomigliante alla suicida, inventa, manipola il soggetto, propone varianti che elabora con il coprotagonista, di cui il regista diviene geloso. È lei!, dice il regista, all’inizio, guardando lo show reel dell’attrice. Ma nella misura in cui “l’essere lei” della protagonista sembra compiersi, tradisce l’intuizione iniziale, collocandosi esternamente alla sua immaginazione. Adesso, in un certo senso, è troppo lei! Coincide tanto più, quanto più differisce. E cambiando, si compie. Il regista sente che in qualche modo “la cosa” gli sta sfuggendo. Non la donna. Dalla donna infatti è ricambiato. Ma “la cosa”. Il processo va arrestato. Il differire dell’identico deve essere bloccato. Adesso. Prima della gemmazione. Prima che l’identico che differisce si stacchi da sé. C’è solo un modo di farlo. E a farlo ci pensa la guida-detective, cioè l’altra personalità del regista. Le due indagini sono la stessa indagine. Un robusto segmento centrale, mediante un’invenzione, si ricompatta con coerenza.

Ora voglio rivedere tutto. Assolutamente. So che la lettura “soggettiva” – che privilegia l’identità del regista e della guida locale, delle due ricerche, delle due verità, delle due ossessioni – funziona. E se decido che il regista è anche lo sceneggiatore del film, il filo del senso diviene ancora più rosso. Lo so. Devo solo verificarlo. Si schiudono, per altro, prospettive interessanti in afferenza al rapporto fra scrittura e cinema, scrittura e ricerca della verità, scrittura e ricerca di un ideale estetico. Scrittura come tentativo di blindare qualcosa che è vivo e che nel dar corpo alla scrittura stessa non può che tradirla. Ma fin dalle prime battute mi rendo conto che più questa coerenza si rafforza, tanto più incongrua risulta l’immagine. C’è un’insistenza sulla qualità oggettiva del visibile, sulla cromatura digitale delle superfici, sul loro nitore diurno, stagliato, assolutamente privo di morbosità; una salda familiarità dei luoghi, ampiezza degli spazi che si offrono allo sguardo, totale mancanza di interiorità in ciò che vi si offre e in colui che filma. Più leggo il film in chiave “soggettiva”, accorpando in una sola persona tre personaggi e riconducendo differenti universi di rappresentazione a un’unica sorgente, più questa strana sconciliazione inasprisce: ogni contraddizione diviene giustificabile, se la fonte è la parola schizoide di un folle, ma tutto perde di peso, mentre le immagini acquistano un carattere autonomo, sempre più contraddittorio. Il contraccolpo manda in frantumi il segmento: sto comportandomi come i personaggi del film. Tutti sono infatti occupati, attraverso differenti canali di potere, in qualche forma di manipolazione|invenzione della realtà. Ora politica (nella vicenda parallela appaiono esponenti del sottobosco finanziario internazionale); ora informativa (la blogger, nel racconto, sostiene di infischiarsene dei fatti); ora investigativa (la compagnia assicurativa del vecchio faccendiere tenta di recuperare i soldi); e ora, naturalmente, mitico-estetica. Ognuno di questi manipolatori procede, nel suo lavoro, per ipotesi, immaginando varianti e alternative, mutando in corsa il proprio operato. Ognuno di questi manipolatori si trova nella medesima condizione del regista, alle prese con un cangiante e interattivo work in progress. Tutti i personaggi di Road to Nowhere, soprattutto nella parte iniziale del racconto, si comportano gli uni con gli altri come spesso accade in un locale trendy, dove si intraprendono oppure interrompono conversazioni al minimo stimolo, incuriositi da qualcosa, per salutare qualcuno, distratti da un’incombenza, dal fugace apparire di una bellezza. E non esiste comunità, ma sprowl. Le case sono lontane l’una dalle altre, immerse nel verde, affacciate sul lago. Gli abitatori vanno e vengono. Ciò che garantisce l’identità di una persona, l’appartenenza, la prossimità, la provenienza, il parentando, la famiglia, non esiste. Sono i media locali a informarti, se è il caso, di ciò che accade nei dintorni. Di chi sia il tuo vicino e di cosa si occupi. Sostituirsi a un’altra persona in un simile contesto appare in effetti assai semplice. E anche negli atteggiamenti più comuni l’uno si sostituisce all’altro, l’uno interferisce con l’altro, l’uno prende il posto all’altro. La guida locale suscita l’interesse del regista dicendo ora cose estremamente pertinenti, ora allusive, ora invece del tutto impertinenti; si comporta come un’interferenza fra interferenze, appare come un pop-up in uno schermo, ora sotto forma di scoop, ora di pubblicità, ora di gossip, ora di suadente consiglio esistenzial-confidenziale. I piani della narrazione interferiscono fra loro, saldandosi e sostituendosi allo stesso modo. Le arbitrarietà narratologiche non hanno come scopo quello di alimentare l’enigma del “chi è chi”, né di confondere lo spettatore a fini di qualche sconvolgente colpo di scena: non sono al servizio di una romantica trama di delitto & mistero, ma intendono restituire lo stato di persistente disturbo dell’attenzione in cui siamo immersi, onde ricostruzioni prevedibili, il percorrimento di strade già perfettamente conosciute, di plot e sequenze precomprese nel loro stesso essere già da sempre finzione. D’altro canto, tutto quanto nel film di Hellman sembra oggettivo – verace o manipolato che sia – appare al tempo stesso provvisorio, malleabile, non pienamente determinato e, in un certo senso, non ancora perfettamente funzionante. Anche per questo Road to Nowhere è un film che ha bisogno di un’ invenzione. O, quantomeno, di una decisione da parte di chi lo guarda, per funzionare. Un film che trasferisce in un atto immaginativo mio, di spettatore, la sua sproporzione e le sue implacabili arbitrarietà. Che muta queste arbitrarietà in mie arbitrarietà, fino al verificarne, magari mediante un’ulteriore visione, la tenuta fittizia. O il loro equivalere a quelle risultanti da un’opposta lettura. Da un differente atto immaginativo.

5 Risposte to “su road to nowhere di monte hellman”

  1. […] To Nowhere” Di francescogallo Ecco: io penso che una recensione/riflessione del genere, ad opera delle scrittore Umberto Casadei, sul film “Road to nowhere” di […]

  2. Ma guarda, Umberto, che è proprio il minimo.
    Tu il tuo nome dovresti cominciare a gridarlo, altroché!

  3. Steven Gaydos said

    Umberto: I want to your novel! Has it been translated into English? Thanks so much for your incredibly rich interpretation of “Road to Nowhere” and for sharing your experience of the film. This kind of response to a film is incredibly exciting and rewarding.

    • mbrt0 said

      Mr. Gaydos? Steven Gaydos? Is it a joke? My God, I hope not. Well … how can I say? Just thank you so much for your attention. Unfortunately, there isn’t an English version of my novel “Il Suicidio di Angela B.”, but if you like it, I’ll be glad to send you a copy in Italian: there’s something in the structure of your script-movie-masterpiece, that reminded me, in a way, of the structure of my novel – a sort of familiar affinity. Did you read the article about Road to Nowhere in Italian? Would you advise me where I can send the copy? Sorry for my English, and this confused answer, but your comment came so out of the blue… I’m amazed!

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